Ecco, questo è IRON BIKE.
Suona la sveglia, mancano pochi minuti alle quattro. Sei nel tuo sacco a pelo, fuori è buio pesto e fa freddo, ma ti devi alzare subito, prima degli altri concorrenti, nella speranza di trovare un bagno libero e poterlo usare serenamente senza dover continuamente urlare “occupato”. Non se ne trova uno con la chiusura ed i bagni sono tre per oltre duecento persone. Torni alla tua tenda alla luce della pila frontale facendo attenzione a non inciampare nei picchetti delle altre tende. Nel frattempo il campo inizia ad animarsi, spuntano altre luci e facce assonnate. Il direttore di gara suona la sveglia con quella specie di corno etnico proveniente da chissà quale paese africano o asiatico il cui suono ricorda un ciclope che si soffia il naso. Prendi la tua tazza e ti rechi dove gli altri stanno già facendo colazione, chiedi un po’ di caffè, cerchi lo zucchero, non lo trovi, pazienza. Una, due fette di pane e nutella, mezza banana, quello che riesci a mandare giù. E’ presto e l’appetito non si è ancora svegliato, ma devi mangiare il più possibile perché la tappa sarà lunga. Sciacqui la tazza nel lavandino, va bene così. Torni nuovamente alla tenda ed inizi a riassettare gli indumenti e tutti gli oggetti che la bomba esplosa ieri sera nella tenda ha sparso dappertutto. Lotti con il sacco a pelo ed il materassino per farli rientrare nelle loro custodie. Ti vesti, prepari il Camel Back, ci metti dentro la mantellina più pesante perché oggi si sale in alto, molto in alto. Rimetti tutto nel borsone, smonti la tenda e la ripieghi. Per fortuna non hai da pensare alla bici, l’hai già sistemata ieri sera e caricata sul camion che l’ha portata alla partenza di tappa di oggi. Ti carichi il borsone da 25 kg su una spalla più la tenda, fai un centinaio di metri e li butti sul camion, li ritroverai alla sera all’arrivo, molto, molto più tardi. Resta da prendere lo zainetto e il casco con l’imbottitura ancora bagnata di sudore da ieri. Gli autobus sono già nel piazzale, 5.30, chiamata generale, uno ad uno tutti i primi (ultimi) 80 concorrenti vengono chiamati all’appello. Nomi impronunciabili dalla Repubblica Ceca, Ungheria, Lituania. Tocca a te, sali sull’autobus e ti siedi dove trovi un posto libero, l’autobus parte, inizia ad albeggiare. L’incedere lento suggerisce il sonno e ne hai tanto. Guardi un po’ la strada, cerchi di intuire i profili delle montagne che dovrai scalare oggi, 4+1, cioè quattro in bici più un giro di giostra omaggio sugli impianti di Vars. Finalmente chiudi gli occhi e ti addormenti, anche pochi minuti sono utili per recuperare ancora qualche energia. L’autobus si ferma, avrai dormito un minuto. Piazzale triste subito fuori dal paese di Acceglio, si scende, uno corre e vomita dietro alcuni massi. Poco più in là una specie di recinto dove sono state custodite le bici durante la notte e la tenda di chi ha dormito lì a guardia, al centro.
Tutte le bici sono legate da lunghe catene, quindi ci vorrà un po’ per slegarle tutte. Intanto il sole è ancora un ricordo della calda giornata di ieri, per ora una tramontana fredda taglia le gambe, qualcuno ha una buona mantellina ed i gambali, altri no e muoiono di freddo. Ti nascondi dietro un camion per il movimento terra, ma le gambe non rimangono coperte, per fortuna hai i gambali, sarà un peso in più nello zaino dopo, ma ora sono preziosi. Arriva il proprietario del camion e senza troppi complimenti mette in moto e intima: “togliete le bici”. Deve andare a lavorare, oggi per lui è lunedì. Uno ad uno tutti i concorrenti vengono chiamati per ritirare la bici partendo dagli ultimi, chiamano il tuo nome, entri nel recinto, forse era di un maneggio, cerchi la tua, ci metti un po’ a trovarla tra altre 120. Verifichi che tutto sia a posto, che durante il trasporto non si sia storto qualcosa. Un altro concorrente bestemmia perché gli hanno rotto l’attacco del conta chilometri sul manubrio. La tua è a posto, sono le 7.00. Alcuni chiedono se si possa anticipare la partenza di mezz’ora, fa troppo freddo per aspettare ancora. Il direttore di gara nega questa possibilità per motivi di sicurezza, le moto non sono ancora passate e sul percorso non c’è ancora nessuno. Non resta che aspettare. Vai a fare la pipì dietro alcuni scogli, qualcuno si impegna un po’ di più nascosto dietro un arbusto. Puntuali alle 7.30 arrivano i cronometristi, inizia l’adunata, si parte dieci alla volta ogni minuto. Il direttore di gara inizia a chiamare uno ad uno i partecipanti partendo dall’ultimo. In classifica sei poco sopra la novantesima posizione, perciò sarai nella terza fila. Partenza, i primi dieci sfilano davanti alla valigetta gialla del controllo elettronico, la seconda fila si sposta parallelamente a se stessa per avvicinarsi, passa un minuto e partono anche loro. Si sposta anche la tua fila. 7.33, si parte. Chippi (cioè passi il chip sul rilevatore), agganci il pedale e da quel momento hai solo un pensiero fisso ed ossessivo: arrivare entro il tempo massimo, tredici ore, vale a dire le 20.33.
Si inizia su asfalto, un paio di chilometri pedalabili, poi rampe secche oltre il 15%, bello con le gambe ghiacciate. Superi alcuni dei concorrenti che sono partiti prima di te, ovvero in classifica ti sono dietro, giustamente prendono il loro passo. Non supereranno il cancello di San Paul. Finito l’asfalto la pendenza concede una tregua, ma il fondo sterrato e un po’ ghiaioso non ti permette di aumentare la velocità.
Questa salita la conosci, l’hai fatta l’anno scorso in allenamento. Sempre molto regolare e tutta pedalabile fino ai 2860 m di altitudine del colle. Altri concorrenti partiti dietro di te ti superano, hanno un bel passo, buon per loro. Cerchi di amministrare le tue energie, sai che questa salita è lunga, il dislivello è di circa 1700 m in 17 km, un buon 10 % di media. Le altre salite saranno peggio. Dopo un’ora e mezza inizi a fare una breve sosta per mangiare un po’ di zuccheri, devi alimentarti poco alla volta ma frequentemente. La strada è sempre pedalabile, ma dopo i 2200 m l’altitudine inizia a farsi sentire. L’influenza due settimane prima di partire non ci voleva proprio, dieci giorni di febbre va e vieni, dissenteria, un chilo perso in più del dovuto e niente allenamenti per quasi venti giorni. Il che significa che quest’anno sopra i duemila ci sei andato solo due volte. Così inizi a lottare contro la voglia di mettere il piede a terra per rifiatare un attimo, ti distrai, ti guardi attorno, cerchi di prendere il ritmo di qualcuno che lentamente ti supera, un po’ ci riesci ed un po’ no.
Zuccheri, un sorso dal Camel Back, alla fine il colle arriva. Metti i piedi su una lingua di neve, stoica resistenza di un inverno generoso di freddo e ghiaccio, scivoli. Inizia l’ultimo tratto, circa cento metri di dislivello da fare tutti a piedi un po’ bici a fianco un po’ caricata sula schiena come fosse la tua croce. E lo è. Sei quasi in cima e senti dire “scusa”, ma è una pronuncia strana. E’ il brasiliano Hugo Prado Nieto, il primo dei primi che ti supereranno, spinge la bici e soffia come una locomotiva, forse quasi tre mila metri di altitudine fanno male anche ai marziani. Finalmente vedi la croce, quella di ferro posta in cima al Monte Bellino quota 2950 m, a ricordo di qualche alpinista che su quei versanti ha finalmente trovato la quiete che cercava da tutta la vita. Uno sguardo solo ed inizi a scendere, ma solo pochi metri, quanto basta per trovare un piccolo spazio per fermarsi e posare la bici senza intralciare gli altri. Il sole ora brilla orgoglioso, vento non c’è ne e freddo non ne fa. Ti metti il gilet leggero, giusto perché sei bagnato marcio. Senti una voce un po’ secca che urla “occhio!”. Eccoli, sono arrivati, sono i primi, quelli forti per davvero. Ismael Ventura Sanchez, Sibil, Barrazuol, tu ci hai messo tre ore e mezzo, loro sono partiti circa un’ora dopo. Non li invidio più di tanto, sembrano segugi da caccia, non possono nemmeno permettersi di darsi un’occhiata intorno al paesaggio spettacolare che comunque li circonda. Sguardo verso il basso sembrano fiutare il terreno, saltano in sella già lassù, se la faranno tutta in bici quella discesa senza senso. Un dei più cattivi è Barazzuol, ci sono un po’ di tornanti che tagliano da destra a sinistra la pietraia che corre lungo valle, lui prende giù dritto e li taglia tutti. Tu nel frattempo sei pronto, tre ore e mezzo per salire e venti secondi di permanenza in vetta.
Primo pezzetto a piedi, poi in sella, ma ad ogni tornate smonti e giri la bici, poi riparti. Magari sarebbe anche l’ora di imparare davvero ad andare giù in certi tratti tecnici. E così è tutto un monta e smonta dalla bici, sei caduto l’anno scorso in quel tratto e vorresti non ripeterlo. Chi non ti ha già superato in salita lo farà agevolmente in discesa, donne comprese. Ti ritrovi non proprio nelle ultime posizioni ma quasi.
Il rifornimento è posto nel punto più basso, al bivio per il Colle del Maurin, un metro prima che ricominci la salita. Riempi d’acqua lo zaino, cerchi di mangiare quanto possibile, la radio dice che il primo è già transitato sul Maurin, ti chiedi come sia possibile. Stringi le scarpe e riparti, subito a piedi. Praticamente tutta salita a spingere la bici tranne venti metri. Poi risali su qualcosa che è più simile ad una frana che ad un sentiero, e ti ricordi che l’altra volta che ci sei passato ti sei lasciato andare ad una battuta con due escursionisti che stavano lì a margine seduti tranquilli mangiando: “è questa la via crucis?”. Tieni duro e speri che le scarpe non ti creino troppi problemi ai piedi, poi finalmente mentre scivoli sulla neve vedi delle guardie forestali e gli chiedi: “è già questo il colle?” ti rispondono di si e ti dicono: “dai bravo, adesso è tutta discesa”. Grazie, molto tecnica e con dei passaggi da fare a piedi bici in spalla perché non sai nemmeno dove metterli i piedi e qualche volta sei costretto a far passare prima la bici, posarla e poi scendere aiutandoti con le mani.
Ecco questo è IRON BIKE.
Ti raggiunge un’altro concorrente, è quello che questa mattina, un sacco di ore fa’, era seduto a fianco a te sull’autobus. Si chiama Stefano. Ti chiede se sai quanto manca di discesa e dove sia il cancello da passare entro le 14. Gli rispondi che la discesa è quasi finita e che il cancello è subito dopo, alla fine del della prova speciale, in corrispondenza del rifornimento ed essendo le 12.45 non ci sono problemi a passarlo. Ma ti sbagliavi. La discesa finisce ed il rifornimento c’è, è quasi l’una. Ma il cancello non è quello, è oltre dieci chilometri più in giù. Allora riempi di corsa il Camel Back, mangi masticando il più velocemente possibile frutta secca, qualche mezza banana, una fetta di pane e marmellata. Riparti, ti accodi ad altri due concorrenti. Conoscono il percorso, l’hanno già fatto l’anno scorso, per oggi ne hanno basta e si ritireranno al passaggio al cancello. Ti dicono che se vuoi passarlo in tempo devi darti una mossa perché si, ci sono dieci km di discesa, ma anche un paio di strappi secchi in salita. Ti butti giù dietro di loro e cerchi di stare in scia. Nell’ora calda il vento soffia al contrario rispetto al mattino presto, cioè da valle verso monte, quindi opposto al senso di marcia. La discesa è su asfalto ma non troppo ripida, c’è da pedalare, ma loro si ritireranno, rinunciando ad altre sette ore di bici. Stiano davanti loro. Poi ad un bivio imprevisto loro proseguono dritti in discesa verso il campo base, tu che invece vuoi proseguire, vinci una deviazione omaggio per godere dello spettacolo di un ponticello di pietra sospeso nel vuoto, un km di salita secca su asfalto e poi freccia giù, sentierino da capra. Poi ancora strappo secco a salire, discesa su single track un altro paio di mangia e bevi e ci sei, il bivio che rappresenta il cancello da passare entro le 14. Sono le 13.50, è andata. Cento deviazioni per tornare sulla strada principale dove gli altri due avevano tirato dritto. Ti dicono: “questo è il cancello, sei in tempo”. Per dieci minuti risparmiati vinci un altro giro di giostra da sei ore e mezzo, sei a metà strada esatta.